Dino Ignani è nato e vive a Roma. Da quasi quaranta anni anni si occupa di fotografia. Predilige lavorare su progetti che sviluppa e porta a termine nel corso di uno o più anni. Ha esposto in mostre personali a Roma, Genova, Torino (Salone del Libro), Milano, Bari, Cagliari, Messina, Rieti, Stoccolma, ha partecipato a tre edizioni del Festival Internazionale di Fotografia di Roma.
- Come ha iniziato a fotografare?
Ho iniziato ad interessarmi alla fotografia grazie a un mio carissimo amico, Maurizio, che molti anni fa mi prestò una Nikkormat e me la lasciò usare per alcuni mesi. Di notte, per avere il buio completo, insieme stampavamo le foto e discutevamo di problemi tecnici e di composizione dell’immagine. Dopo qualche mese ho acquistato la mia prima macchina fotografica, una Nikon F usata. Scelsi quel modello pochi giorni dopo aver visto Blow Up, un film di Michelangelo Antonioni. Il protagonista del film, un fotografo londinese, usava quella macchina. Successivamente mi sono iscritto a un corso di sviluppo e stampa in bianco e nero che è durato sei mesi e l’anno successivo ho frequentato un corso di due anni di tecniche di ripresa e linguaggio fotografico.
- Come si definisce?
Ormai sono quasi quaranta anni che mi occupo di fotografia e, ovviamente, in tutti questi anni mi è capitato di dedicarmi a generi diversi, soprattutto mi sono interessato alla fotografia di paesaggio e al ritratto. Il mio istinto comunicativo mi aiuta molto nella fotografia di ritratto. Mi trovo a mio agio nel fotografare le persone in un rapporto diretto e questo soddisfa la mia inesauribile curiosità nei contatti umani. Non trovo stimolante riprendere le persone a loro insaputa, la cosiddetta Street Photography non mi interessa. Invece trovo straordinario lo scambio di sguardi che si crea tra il fotografo e il fotografato, anche se a volte accade solo per qualche minuto: è un corto circuito davvero speciale. Neanche un certo tipo di reportage mi interessa. Per i poveri del mondo, intesi come coloro che soffrono per guerre, fame, sete e malattie sono interessato come uomo, non come fotografo.
- Nella realizzazione dei “Dark Portraits”, qual è stato il suo scopo? Semplicemente documentare quella breve generazione degli anni ’80 o indagare la singola persona ritratta?
Né l’intenzione di documentare né di indagare le singole persone. Quello che poi è diventato un archivio di oltre quattrocento immagini è nato per caso e per la mia curiosità. All’inizio degli anni ottanta frequentavo una vineria in Trastevere, qui a Roma, che si chiamava Fidelio e che purtroppo non c’è più, il proprietario era un tedesco, Walter. Nel suo locale appendeva dei bellissimi manifesti di film e si ascoltava perlopiù musica classica, c’erano dei lunghi tavoli comuni che facilitavano la comunicazione ed io ero uno tra i frequentatori abituali. Ad un certo momento anche alcuni “dark” iniziarono ad incontrarsi assiduamente nella vineria. Dopo un paio di settimane ho iniziato ad andare con loro nei video-bar e nelle discoteche che proponevano serate con la musica che loro amavano. Istintivamente ho iniziato a fotografarli.
- Qual è il lavoro a cui è legato particolarmente?
“Intimi Ritratti”, è un lavoro che ho iniziato nei primi anni ottanta e che avevo considerato concluso dopo una decina di anni. Da sei anni ho ripreso il progetto e tuttora ci sto lavorando. Consiste in oltre centocinquanta ritratti di poeti, italiani e non, ripresi quasi tutti nelle loro case. Una selezione di fotografie di questo progetto è stata acquisita dal Museo della Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo.
- È soddisfatto della sua carriera o c’è una fotografia che vorrebbe ancora scattare?
Più che alla foto che vorrei o potrei fare penso con dispiacere ad alcune fotografie che avrei potuto fare e che, per motivi diversi, non sono riuscito a fare.
Foto: ©Dino Ignani