Massimo Berruti (Roma, 1979) è un fotografo documentarista. Dagli anni trascorsi ad analizzare le implicazioni politiche sulla popolazione locale causata dalla “War of Terror” in Asia centrale e soprattutto in Pakistan, è nato il progetto “The Dusty Path”. Nell’ottobre 2005 entra a far parte dell’ Agenzia Grazia Neri di Milano e nel 2008 diventa un membro dell’ Agenzia VU di Parigi.
1. Iniziamo dall’inizio: Quando hai capito di voler fare il fotografo?
Avevo circa 23 anni, iscritto alla facoltà di biologia ma non ero convinto di dove mi avrebbe portato. Ero ormai sicuro però che non avrei mai fatto la vita per cui avevo iniziato quel percorso, non avrei mai solcato i mari alla ricerca di una nuova specie animale o seguito una conosciuta per capirne i comportamenti. Così decisi di rispolverare l’antico interesse per la fotografia, con la quale avevo avuto da giovanissimo una travolgente infatuazione, anche se a quel tempo, solo ed esclusivamente come osservatore. La vera folgorazione però è venuta solo con la pratica, iniziata con un corso breve. Lì ho capito quanto di più ci fosse, rispetto allo scatto. Tutto risiede nella ricerca e poi nel processo che porta a realizzare una storia, foto dopo foto.
2. Per quale motivo ti sei avvicinato al reportage?
Perché questa è la forma di fotografia che che più mi interessa per ora, per le sue implicazioni e caratteristiche sia sociali che personali. E’ la miglior scusa si possa avere per andare a vedere, per esserci, per cercare di capire. Non c’è una vera ragione, una sola intendo, è uno stato mentale, spesso di frontiera.
3. Qual è la foto che ti rappresenta maggiormente? E perché?
Non saprei, ci sono diverse foto che mi vengono in mente, ma siccome sono abituato a ragionare per serie fotografiche, per storie, individuarne una sola mi è praticamente impossibile. Non credo nella foto singola, vedo la fotografia come un opera di narrazione, per cui legata ad una sequenzialità, ad un ritmo e ad una sintassi. Parlare per immagini è una sfida sempre nuova.
4. Cosa ti ispira nel tuo lavoro?
Mi ispirano il racconto e la ricerca, la possibilità di addentrarmi in situazioni altrimenti impensabili, la possibilità di interpretare il reale, attraverso il proprio istinto e filtro culturale. L’obiettività e l’imparzialità sono chimere del giornalismo. Credo più onestamente che questo sia invece un mezzo per prendere una posizione documentata ed esprimerla secondo un punto di vista.
5. Hai ancora un sogno nel cassetto?
Non uno ma molti, e perdonami ma sto lavorando ad alcuni e per scaramanzia preferisco non parlarne.
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