Lorenzo Tugnoli, classe 1979, è un fotografo documentarista con base in Medio Oriente. I suoi lavori sono stati pubblicati dal The New York Times, The Wall Street Journal, Le Monde, Newsweek, Time Magazine, Wired, The New Republic, The Atlantic, Der Spiegel e collabora regolarmente a The Washington Post.
1. Cosa ti ha portato a fotografare Kabul partendo da un piccolo paese della Romagna?
Sono sempre stato interessato al Medio Oriente e all’Asia Centrale e da anni viaggio in questi Paesi. Mentre ero in Palestina nel 2006 ho conosciuto una persona che poi ha cominciato a lavorare per la Cooperazione Italiana a Kabul. Quando mi ha proposto un viaggio per esplorare l’Afghanistan ho colto l’occasione al volo. Durante il mio primo viaggio a Kabul ho cominciato a sviluppare dei contatti, e nei viaggi seguenti ho trovato sempre più opportunità di lavoro come fotografo per giornali e per alcune organizzazioni di sviluppo. Alla fine del 2009 ho deciso di trasferirmi, anche per ragioni di cuore. Nel 2009 l’Afghanistan era un Paese al centro dell’attenzione internazionale, il contingente militare degli Stati Uniti e della NATO era al suo picco numerico, le Nazioni Unite avevano la loro missione più importante. A Kabul vivevano molti giornalisti e cooperanti e in quest’ambiente era semplice prendere contatti e imparare da giornalisti più esperti.
Come fotografo, non ho frequentato nessuna scuola e tutto ciò che ho imparato è venuto fotografando, viaggiando e lavorando con altri fotografi. Spesso, il motivo che mi spinge a visitare un posto è la curiosità di vedere certi luoghi in prima persona e di incontrare quelli che ci vivono. La decisione di dedicarmi a tempo pieno alla fotografia è maturata mentre frequentavo Fisica a Bologna. Era il 2004, durante il mio primo viaggio da “fotografo” in Chiapas e ho capito che quello era il mestiere che volevo fare. Il reportage sul Messico non l’ho mai venduto ma è stato un viaggio importante.
2. Quando hai visitato per la prima volta l’Afghanistan, come sei stato accolto?
All’inizio mi sono appoggiato a persone del posto e ad altri giornalisti stranieri per farmi consigliare. Quando sei lì chiedi, guardi, ti muovi lentamente e sopratutto non fai cose azzardate. Le persone che conosci ti portano a scoprire posti nuovi e a capire il paese lentamente. Nel mio primo viaggio, ad esempio, ho conosciuto Rahim, un designer di case e di tappeti. Mi ha ospitato in una delle sue tante case e abbiamo cominciato a collaborare, infine è diventato uno dei personaggi del libro che ho pubblicato nel 2014. In Afghanistan l’ospitalità è sacra e passato il sospetto iniziale, sono sempre pronti a darti una mano. Certo alle volte, viaggiando in zone del paese in cui il conflitto si sente di più, e la situazione è tesa, è difficile sviluppare un legame con le persone. Occorre molto tempo per capire le dinamiche di potere ed è un Paese che può apparire culturalmente distante alle volte. C’è un forte rispetto della religione e delle tradizioni.
3. Come è nata la collaborazione con Francesca Recchia per il tuo libro The Little Book of Kabul?
Francesca Recchia, scrittrice e ricercatrice, è venuta in Afghanistan la prima volta per un articolo sulla scena culturale di Kabul a cui stavamo lavorando insieme, ma per raccontare quello che abbiamo trovato a Kabul non è bastato un articolo, quindi abbiamo deciso di lavorare al Little Book of Kabul.
La distruzione della guerra civile è stata un colpo durissimo per la scena culturale del paese mentre gli ultimi 10 anni hanno visto il ritorno di poeti e artisti. Quando abbiamo cominciato ad incontrare gli artisti di Kabul abbiamo trovato tanti ragazzi pieni di entusiasmo. C’era la voglia di ricostruire un paese e le sue pratiche culturali, alcuni di loro lavoravano su territori inesplorati in Afghanistan, come la musica rock o l’arte contemporanea, e c’era una bellissima voglia di scoperta.
All’ nizio della lavorazione abbiamo deciso di centrare la narrazione su alcuni personaggi principali. Abbiamo seguito i Kabul Dreams, un gruppo rock molto importante in Afghanistan, mentre registravano il loro primo disco. Abbiamo seguito gli studenti del CCAA, un’ accademia d’arte contemporanea, e infine abbiamo raccontato i vari progetti visionari di Rahim, un interior designer che progetta e costruisce ristoranti e case secondo un gusto molto personale.
4. Da cosa nasce il titolo del libro The Little Book of Kabul?
Il libro è il racconto dei piccoli momenti che quest artisti ci hanno regalato. Il titolo ci è stato consigliato da un amico e penso sia piaciuto subito ad entrambi perché rispecchia la nostra volontà di raccontare la città partendo dalle esperienze particolari di alcune persone e facendo attenzione a non suggerire conclusioni generalizzanti.
Le fotografie e i racconti brevi forniscono delle piccole immagini della vita dei personaggi lasciando al lettore lo spazio di mettere insieme i pezzi e di ricostruire lentamente una realtà vera o immaginata.
Abbiamo lavorato al libro nel 2012 e nel 2013 e lo abbiamo pubblicato nel 2014. In questi anni c’era un grande timore per quello che sarebbe successo dopo il ritiro delle forze internazionali, ed era nostro interesse chiederci se quello che era stato costruito nel paese in quegli anni avrebbe retto alla partenza degli stranieri.
5. Che tipo di legame si è instaurato tra te, Francesca e i ragazzi fotografati? Cos’hai dato a loro e viceversa?
Abbiamo sviluppato collaborazioni con tutti i personaggi del libro. Alcune delle mie fotografie sono state usate dai Kabul Dreams, una è addirittura finita sulla copertina del loro secondo album. Con Rahim abbiamo lavorato molto per la promozione del suo lavoro e al CCAA sono stati organizzati vari workshop di arte contemporanea, soprattutto grazie all’esperienza di insegnamento di Francesca.
Personalmente ho ricevuto moltissimo da questi artisti e lavorare al libro è diventata un’occasione per riflettere sulla mia identità di fotografo. Essere a contatto con queste persone piene di passione e di entusiasmo per il processo creativo in se, nonostante tutte le difficoltà, mi ha fatto molto riflettere sulle mie scelte professionali.
Foto: © Lorenzo Tugnoli
Trackback/Pingback