Simona Guerra, consulente di archivi fotografici, è esperta di riordino e catalogazione di fondi fotografici e ha collaborato con importanti istituzioni del settore quali l’archivio “Fratelli Alinari” e “Mario Giacomelli”. Oltre all’insegnamento sul linguaggio fotografico, è curatrice dell’evento annuale Giornate di Fotografia insieme a Lisa Calabrese ed ideatrice delle Rete Fotografica Marche. Tra le sue pubblicazioni sulla fotografia, si citano: “Mario Giacomelli. La mia vita intera” e “Mario Dondero” (per Bruno Mondadori) “Cesare Colombo con Simona Guerra. La Camera del tempo” (per Contrasto) e il romanzo“Bianco e oscuro. Storia di panico e fotografia” (con fotografie di Giovanni Marrozzini; per PostCart).
- Raccontaci il tuo percorso formativo nel mondo della fotografia.
Mi sono laureata all’ Università di Bologna, dove ho iniziato a studiarne storia della fotografia con Italo Zannier. La mia tesi di laurea invece era su un’altra disciplina che ho sempre molto amato: Psicologia della percezione. Il mio percorso formativo però è iniziato molto prima, a casa mia, accanto a due figure di riferimento importanti: mio padre, artista, e mio zio Mario Giacomelli, fotografo. Più tardi il lavoro mi ha portata un po’ in giro per l’Italia e all’ estero. Prima il mio interesse era volto al mondo delle grandi gallerie – a Milano ho lavorato per la Photology – ma dopo essermi spostata a Firenze, per lavorare presso l’Archivio Alinari sono tornata sui miei passi, alla fotografia storica, in cui mi muovo ancora oggi molto meglio. Oggi sono archivista fotografica, ma il “mercato” mi ha portata a seguire alcune attività connesse all’ archivio come eventi e insegnamento – anche nelle scuole – della cultura fotografica.
- Hai avvertito un peso particolare nell’ essere la nipote di uno dei più grandi fotografi italiani? Qual è stata l’eredità più importante che ti ha lasciato Mario Giacomelli?
Direi di no. Non nascondo che quando ho iniziato a muovermi in questo mondo venivo nominata o ricordata come “la nipote di…”. Ricordo che Ferdinando Scianna mi ha chiamata in più occasioni, semplicemente “La nipotina”. Seppure era un modo bonario per scherzare con me era fastidioso. In generale questo era abbastanza spiacevole, come credo sarebbe stato per tutti, perché era come se un mio valore fosse possibile grazie alla parentela con Mario. Allora ero molto giovane e questo fatto è stato anche un’ulteriore spinta perché io sviluppassi con maggior convinzione una mia personalità, un mio pensiero e crescessi in modo indipendente da lui da un punto di vista professionale. Quel fastidio ora non c’è più e quello che oggi sento è di potermi presentare agli altri per ciò che sono, e non per la mia seppur preziosa parentela. Certamente cose che non hanno a che fare, nello specifico, con la fotografia, ma piuttosto con un modo di guardare, gustare, la vita. Questo è anche il segreto della sua fotografia.
- Qual è stata la tua più grande soddisfazione che hai ricevuto durante la tua carriera di consulente di archivi, insegnante e curatrice?
Il lavoro che svolgo mi da grandi soddisfazioni. Se non fosse così lo avrei cambiato da tempo. Per essere soddisfatta da un punto di vista professionale devo riuscire nello stesso tempo a fare qualcosa che arricchisce me e che possa realmente servire, nella forma richiesta, al committente. Da questo punto di vista sono abbastanza egoista, nel senso che da ogni cosa che faccio devo imparare qualcosa di nuovo. Deve sempre esserci un ritorno di tipo culturale per me non indifferente. Questo lavoro non lo si fa per soldi; è pagato meno di quello che vale e non è compreso, specialmente in Italia, ma io mi sento molto ricca per via di questa crescita intellettuale che mi offre ogni giorno.
- Perché consideri la fotografia come strumento terapeutico al fine della rappresentazione del sé?
Perché la fotografia è terapeutica. Perché è proprio così! Ma forse devo fare una piccola premessa per farti capire il perché – per me – questa cosa sia così ovvia. Un tempo il mio approccio alla fotografia era quello archivistico. Ordinavo, schedavo, codificavo… la fotografia era un oggetto da preservare nel modo migliore possibile. Poi un bel giorno ho iniziato a soffrire di attacchi di panico, una cosa che apparentemente non c’entra nulla con la fotografia, ma per una persona come me, che vive per la fotografia non c’è nulla che sia indipendente da lei. E’ stato un periodo molto buio e molto doloroso e se il disturbo è passato è stato, molto, grazie alla fotografia, che non ha mai smesso di starmi accanto. Pensa che l’unico momento della giornata in cui stavo bene era quando lavoravo in archivio! Quando finalmente ho ripreso piano piano la mia esistenza in mano e il panico è passato, è stato allora che la fotografia ha cambiato il suo modo di starmi accanto, dato che io stessa, per prima ero cambiata. Oggi per me la fotografia è un luogo in cui voglio abitare con i miei pensieri, con ogni genere di emozione che io provi; non voglio preservarla dal trascorrere del tempo ma al contrario le chiedo di consumarsi assieme a me. In archivio sono sempre la stessa di prima, ma fuori da lì la fotografia la uso per affrontare l’inquietudine che mi abita e che farà parte di me per tutta la vita. Vorrei che lo sapessero anche gli altri tutto questo; che chi è in sintonia con questo mezzo possa sapere che straordinarie possibilità ha, se si scegliesse di volerle prendere in considerazione. La mia esperienza è ciò che porto nei seminari che tengo ormai da alcuni anni.
- Progetti futuri?
Il mio progetto per il futuro è quello di cercare sempre di godermi ogni istante dell’oggi. D’altronde, come scrisse Dean Acheson, “Il futuro si costruisce un giorno per volta.” Non credi?
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