Stefania Prandi è giornalista, scrittrice e fotografa freelance occupandosi di questioni di genere, lavoro, diritti umani, società e ambiente. Ha lavorato in redazione e sul campo, realizzando reportage da India, Etiopia, Albania, Grecia, Portogallo e Italia. Tra le sue collaborazioni, sia nazionali che internazionali, possiamo citare BuzzFeed, Al Jazeera, Vice, El País, Il Sole 24 Ore, Open Society Foundations, Correctiv, the Swiss magazine Azione, RSI (Radiotelevisione svizzera), Gli Stati Generali, Elle . Nel 2018 ha pubblicato Oro Rosso con la casa editrice settenove sul tema della violenza sessuale subita dalle donne lavoratrici in agricoltura e vincendo numerosi premi e riconoscimenti.
Da anni ti occupi di violenza di genere in qualità di giornalista e fotografa. Da quali riflessioni sei partita per decidere di lavorare su queste tematiche?
Da molti anni mi occupavo di questioni di genere, lavoro, diritti umani come giornalista e fotografa. A un certo punto quattro anni fa, dopo una serie di esperienze professionali sul campo e dopo un corso di master in Svezia in Gender studies, seguito a distanza, mentre lavoravo, ho iniziato due progetti a lungo termine, uno sulle molestie sessuali in agricoltura che ha dato origine a Oro rosso e l’altro sul femminicidio, che ha portato a The Consequences. Mi sembravano entrambi due temi cardine, da provare a esplorare.
Da un lato il primo non era stato veramente indagato, sia per quanto riguarda l’ambito dell’agricoltura, sia in generale, perché comunque il tema del sexual harassment, delle molestie sessuali, che vanno dalle violenze verbali, al ricatto allo stupro, in Italia è ancora, come dire, non secondario, forse ancora meno che secondario.
Invece per quanto riguarda il femminicidio, era comunque un tema necessario da affrontare già quattro anni fa. L’intento era quello di cercare delle angolature diverse da quelle proposte dal giornalismo mainstream, per approfondire o cercare di descrivere un fenomeno che è l’acme della violenza sulle donne. Considerando il femminicidio come la punta dell’iceberg ho cercato di mostrare quali fossero le origini anche della violenza contro le donne, nelle sue diverse implicazioni.
Ho avuto piacere di conoscerti qualche mese fa in occasione della mostra The Consequences, ospitata presso La Quadreria di Bologna, che racconta le famiglie delle vittime di femminicidio. Come sei riuscita a rappresentare la violenza di genere in un progetto fotografico?
Il focus di questo progetto è il racconto delle violenze di chi è stata uccisa attraverso lo sguardo di chi resta. Le foto sono su chi resta. L’idea è stata di rappresentare, di mostrare delle persone “invisibilizzate”, i parenti e le stesse donne uccise. C’è una sorta di distorsione paradossale nell’iconografia usata dai media a corredo delle cronache dei femminicidi – io parlo di media italiani ma la questione riguarda anche altri Paesi del mondo – cioè le donne vengono in genere esposte con foto prese dai social network oppure mostrate in mise scelte per identificarle nella loro femminilità, spesso sessualizzata, come se fosse questa la causa della violenza.
L’aggressore in genere non viene mai mostrato, oppure è in compagnia della donna che ha ucciso, abbracciato, a ribadire che comunque siano andate le cose, loro “si amavano”.
Per ribaltare o per trovare altre proposte visive rispetto a questa, ci sono tante possibili soluzioni. Io ho scelto di concentrarmi sui parenti e, attraverso loro, sulle vittime. Le foto delle vittime sono foto di foto: sono viste attraverso gli occhi di chi le ha veramente amate e continua a farlo, nonostante la morte.
Un altro tuo progetto è Oro Rosso che indaga le violenze sessuali sul lavoro delle braccianti nell’area del Mediterraneo. Quali difficoltà hai incontrato non solo durante la realizzazione ma anche nella diffusione e pubblicazione?
Essendo un lavoro da freelancer, la ricerca dei fondi è stata laboriosa perché per ogni zona che ho visitato avevo bisogno di un budget minimo per coprire le spese degli spostamenti, dell’alloggio, di chi mi ha messo in contatto con le lavoratrici e ha tradotto le lingue che non conoscevo, come l’arabo. È stato difficile condurre l’inchiesta a causa della mancanza di consapevolezza e dell’omertà diffusa. Spesso mi è stato consigliato, o meglio intimato, di lasciare perdere. La violenza sul lavoro, che include molestie sessuali, insulti, aggressioni fisiche, ricatti, fino al vero e proprio stupro, nei paesi del Mediterraneo sui quali mi sono concentrata, perché sono tra i principali esportatori di verdura e frutta in Europa, è ancora tabù.
È difficile da riconoscere e nominare per associazioni e sindacati, non viene considerata a dovere da chi ha il compito di esercitare la legge e quindi per le donne è difficilissimo sperare di avere giustizia. Ci sono stati dei momenti di tensione con minacce varie, anche di morte, in Spagna, nella zona di Huelva, un inseguimento in Marocco per cinquanta chilometri dai guardiani di un’azienda e un altro intoppo che ha rischiato di fare saltare tutto il lavoro. In generale, comunque, ho cercato di correre un rischio calcolato e ho sempre cercato di andare accompagnata da qualcuno che conoscesse il territorio, anche perché avrei messo a repentaglio le stesse braccianti se qualcosa fosse andato storto.
Le lavoratrici vivono sotto scacco perenne: già essere viste in compagnia di una giornalista per loro significa correre il rischio di perdere il lavoro o peggio, di essere picchiate.Per la pubblicazione, non c’era interesse inizialmente in Italia, così mi sono rivolta all’estero, dove con l’inchiesta giornalistica ho vinto diversi premi. Ma poi col tempo l’attenzione della società civile – in particolare di associazioni, bibliotecarie, maestre, professoresse – in Italia è cresciuta e adesso, che sono passati quasi due anni da quando è stato pubblicato il lavoro, continuo a ricevere inviti per la mostra e per incontri.
In che modo hai cercato di decostruire l’immaginario retorico mainstream legato alla violenza di genere?
Normalmente, a livello di mainstream, siamo esposti ad un “male gaze”, quindi a un punto di vista maschile, dove in genere i gesti della violenza – e chi la subisce – diventano oggetti e dove si insiste sulla descrizione della violenza, in modo sensazionalistico, stucchevole e pietistico.
La mia idea era di ribaltare la dimensione di subordinazione esplicita e implicita che c’è tra soggetto e oggetto in una sorta di dialogo considerando che chi c’è di fronte è una persona esattamente come chi lo fotografa. Volevo anche cercare di prescindere dal linguaggio sensazionalistico e pietistico.
Ci sono autori che apprezzi in quanto portatori di una corretta comunicazione di genere in ambito fotografico? Quali secondo te invece ricalcano i soliti clichés?
Ci sono molte fotografe che ammiro. Qualche nome, ma la lista sarebbe lunga: Donna Ferrato, Nan Goldin, Susan Meiselas, Lina Pallotta, Daniella Zalcman, Graciela Iturbide, Janita Escobar, Jessica Dimmock.
Per rispondere alla seconda domanda, credo che per occuparsi di certe tematiche ci vogliano una forte motivazione, ispirazione e preparazione, non tutte e tre per forza, ma almeno due insieme servono. Non basta scegliere un certo tema e di relazionarsi con certi soggetti perché il vento soffia da una certa parte.
Vedo spesso fotografi che “sfruttano” certe situazioni che riguardano la violenza sulle donne riproponendo stereotipi e ricalcando immaginari vittimizzanti e pietisti. Più volte, dato che lavoro anche come giornalista e quindi “trovo” le angolature e i testi, sono stata contattata da fotografi che mi hanno detto: “Adesso la violenza sulle donne tira, facciamo un progetto insieme”.