Com’è cambiato il tuo rapporto con la fotografia durante l’emergenza COVID-19 tutt’ora in corso? Questa la domanda che ho rivolto ad alcuni fotografi per capire come (e se) l’emergenza ha influito sulla loro attività: alcuni hanno continuato a fotografiare, altri si sono fermato a riflettere e altri si sono reinventati.
Dopo la prima puntata, che ha coinvolto quattro i fotografi in piena quarantena in casa, i nuovi autori hanno raccontato la loro esperienza e considerazioni a pochi giorni dall’inizio della Fase 2 dell’emergenza. L’intervista multipla di questa settimana è affidata alle parole di Filippo Venturi, Chiara Francesca Rizzuti, Francesco Faraci, Chiara Fossati e Giacomo Infrantino.
FILIPPO VENTURI
«Secondo i miei piani dello scorso autunno, nel 2020 avrei dovuto proseguire, dopo Corea del Sud e del Nord, la mia indagine fotografica sui paesi dell’estremo oriente affrontando un viaggio di Cina di circa un mese. Avevo già trovato sponsor, contatti, un autista e un interprete e stavo per iniziare la procedura per il visto, i vaccini e tutto il resto. Quando a gennaio si è iniziato a parlare di Coronavirus, quindi, ho subito seguito con interesse questa emergenza sanitaria, prima per capire se avrebbe compromesso il mio progetto in Cina, come è poi avvenuto, poi per vedere se avrebbe toccato anche l’Italia. Quando a causa di questo nuovo virus i decreti del Governo Italiano hanno imposto l’isolamento sempre più stringente ho temuto una sorta di “blocco del fotografo”.
Nei miei corsi e negli incontri dove parlo di fotografia, spesso ripeto l’importanza del mettersi alla prova, affrontando limiti e superando paletti. Questo esame a sorpresa, dovuto al Coronavirus, mi ha spinto ad osservarmi attorno con una attenzione che in passato mi è mancata e a sperimentare qualcosa di diverso. Sono nati 3 lavori distinti, svolti senza uscire di casa, che hanno trovato spazio su giornali come The Washington Post, The Guardian, Il Sole 24 Ore, Marie Claire Korea e altri, bilanciando così tutti i servizi fotografici che mi sono saltati a causa del lockdown.
“In Time of Peril” è un diario intimo (ancora in corso) incentrato su mio figlio Ulisse e sulle mie ansie circa il suo futuro. “Riders at the Time of Coronavirus” è un reportage che ho realizzato sul cancello di casa mia, rispettando quindi l’isolamento domestico; effettuando ordini a domicilio di cibo, birra, libri e altro, ho potuto fotografare e intervistare 38 rider e valorizzare l’importanza del lavoro che stanno svolgendo, con risvolti anche sociali. “Yard Time” è invece un lavoro leggero e ironico su come le persone, costrette in casa, abbiano riscoperto i propri spazi domestici, come balconi o giardini, che rappresentano l’unico sbocco sull’esterno.
Come già avvenuto in passato, quindi, la fotografia mi ha permesso di affrontare una situazione problematica, trovando una via per superare i limiti che mi trovavo davanti e permettendomi di raccontare cosa stava accadendo attorno a me. E con molto piacere ho potuto anche assistere all’ottimo stato della fotografia italiana, osservando e ammirando il lavoro dei colleghi, che mi ha permesso di comprendere le mille sfaccettature della nuova realtà che stiamo vivendo.»
CHIARA FRANCESCA RIZZUTI
«E’ da mesi che non mi dedico ad un progetto fotografico e scattare mi manca moltissimo.
Studiare, fare ricerca, imparare qualcosa da tradurre in immagine è un’attività che vorrei riuscire a fare quanto più possibile.
Ma è da molto prima del lockdown che non scatto: da quando ho iniziato a chiedermi che tipo di autrice volessi essere, quali fossero i valori fondamentali per me, quali fossero le tematiche a me più care. Da quando mi sono iscritta all’Università per studiare antropologia, ho approfondito il mio punto di vista: altamente critico nei confronti di una società che si basa sulla produzione sempre più ampia di disuguaglianze, sull’incapacità di essere ecosostenibile e sulla ancora profonda disparità di genere.
Questa pandemia rivela agli occhi di tutti, almeno, coloro che sono disposti a vedere, quanto il capitalismo sia un habitus talmente radicato nelle nostre menti che, anche in un mondo che non è più lo stesso, continuiamo ad usare le stesse categorie culturali per approcciarci ad esso: la continua produzione e l’immediata condivisione.
Ma è per questo che ho continuato a non scattare fotografie: è stato naturale per me non approfittare della situazione sensazionalistica, accaparrandomi un pezzo della notizia per campare – mettendo a rischio le persone intorno a me. Per questo non mi sono buttata in esercizi retorici di stile o dedicata al documentare la mia vita privata. Mi sembrava concentrarmi sul dito che però indica la Luna.
Spero non mi si fraintenda: non colpevolizzo o stigmatizzo chi attua o ha attuato certi racconti, è sempre incredibile essere testimoni delle forme di resistenza di ognuno, ma sono dell’idea che noi comunicatori abbiamo tanto potere quanto responsabilità e dobbiamo essere consapevoli dei messaggi che diffondiamo nel mondo.
Chiuderci in una torre d’avorio, costruendo soliloqui comprensibili solo alle logiche del mercato dell’arte, che ci ha educato ad una certa retorica, non fa che appiattire le nostre capacità di comunicatori: noi costruiamo ponti tra i mondi, raccontiamo storie e diventiamo voce per chi voce non ne ha.
Non si tratta di dare risposte, non siamo ovviamente figure competenti in tutte le branche del sapere, ma il nostro porci domande, fare riflessioni e cercarle quelle risposte, smuove gli animi e ci rende tutti più consapevoli del nostro stare al mondo. Il nostro lavoro è politico perché interessa tutti e tutte. Ed io oggi ho moltissime domande sul futuro, su come e se questo cambierà la nostra società, perché il mondo già sembra scivolarmi via, già mi sembra appartenere alle generazioni successive alla mia, sfugge alla mia comprensione.
Il mio quindi non è solo prender fiato, constatando la complessità che questo evento porta con se, ma è anche un momento per mettere in fila le domande, per raccogliere materiale, testimonianze e confrontarmi con tutti per capire al meglio non solo come costruire magari un altro mondo, ma anche come raccontarlo.»
FRANCESCO FARACI
«Sarei dovuto partire per un lungo viaggio. Avrei dovuto lasciare Palermo ma solo per un pò, per poi fare ritorno, come sempre. Presentazioni del nuovo libro, workshop o forse un modo per riprendere fiato.
Il presente, però, nel frattempo, ha bussato prepotente alla porta. Chiude tutto. La nostra vita messa in stand-by. I primi giorni di angoscia. Smarrimento. Non ho chiara la situazione. Di giorno in giorno la situazione peggiora e urge una reazione. Una qualunque. Fuori si fa la storia, che ci piaccia o meno.
Come sempre faccio, per capire, scendo in strada. Mi accorgo però che l’orizzonte è ristretto a poco meno di tre chilometri. Nel silenzio e nella desolazione si attivano al massimo tutti e cinque i sensi. Non faccio che camminare guardando tutto intorno. I monumenti, le piazze, i vicoli, il mare, sono sempre quelli, sempre gli stessi. Eppure niente è uguale a prima. Cercare delle fotografie è la mia reazione alla paura. Ha un ruolo quasi salvifico, un modo per ricordarmi di essere ancora vivo.
È il filo rosso che lega il sogno alla realtà.
Quel vuoto, dentro e fuori, è troppo pesante da sopportare. Sento il bisogno di riempirlo, di dargli un senso. Inizio così a cercare altri occhi, altri sguardi, solo così posso accertarmi della comunanza di sensazioni. Solo così mi pare di capire che non sia un incubo, questo nostro tempo.
I giornali mi assorbono. Leggo ogni sorta di notizia. Questo continuo informarsi forse, ad un certo punto, inizia a essere controproducente. La prima notizia contraddice la seconda e le idee si confondono, si affastellano nella mente. Mi sforzo di leggere, ma la concentrazione è bassissima. Riesco a malapena a finire qualche pagina, poi inevitabilmente comincia la lettura infinitesimale della stessa riga. Desisto.
L’umore durante la giornata è altalenante. Intanto Palermo è diventato l’habitat naturale dei gabbiani e dei gatti. Sono loro re e regine dell’asfalto.
Continuo a ripetermi che dovrà finire, che dobbiamo resistere.
Voglio pensare che andrà tutto bene. Che molti di noi da tutta questa storia ne usciranno diversi. Nuovi, forse. Altri no, ma è il gioco della vita in fondo.
Mi accorgo solo adesso che se non avessi cercato le fotografie che ho fatto, il prima e il dopo non avrebbero avuto senso. Mi ha imposto di andare ancor di più in profondità. Permesso di asciugare lo sguardo, renderlo più asciutto. Essenziale. In questo senso è cambiato il mio rapporto con lei, ma solo perché sono cambiato io.»
CHIARA FOSSATI
«So che potrebbe sembrare strano, ma nonostante il periodo incredibile che stiamo vivendo il mio rapporto con la fotografia è rimasto immutato. Anzi forse ancora di più sono convinta nella assoluta importanza e necessità della fotografia per raccontare la nostra società.
Anche in questo caso senza essa non avremmo potuto vedere i volti distrutti dalla stanchezza dei medici e degli infermieri dopo turni di 36 ore, non avremmo visto le carovane di bare che attraversavano le nostre città. E’ grazie alla fotografia se siamo riusciti a mantenere un contatto con la realtà anche se momentaneamente costretti a non lasciare le nostre case.
Nel mio piccolo ho donato delle stampe per supportare gli ospedali con il ricavato e ho continuato a documentare il mio quartiere, in questo sono stata fortunata, perché per proseguire il mio progetto mi bastava uscire nel mio cortile o affacciarmi dalla porta di casa. Senza dubbio, il mio lavoro che credevo finito, avrà un capitolo in più, quello che riguarda appunto il Covid, che non possiamo ignorare.
Devo dire però che questa cosa ha solo riconfermato che il Villaggio dei Fiori, quartiere dove vivo a Milano e su cui sto facendo un progetto da tre anni, è un luogo in cui la comunità è legatissima, e si unisce e si aiuta ancora di più in questi momenti difficili, anche con piccoli gesti e mi sento davvero fortunata a farne parte.
Non vedo l’ora che questo lavoro diventi un libro, per poter mostrare questo luogo speciale anche a chi non lo conosce, ancora di più in questo momento in cui è importante sapere di poter contare sulle persone che ci sono attorno.»
GIACOMO INFANTINO
«Il mio rapporto con la fotografia durante l’emergenza Covid-19 ha subito alcune fasi di cambiamento e ne ha modificato, solo per alcuni aspetti, il rapporto che ho con essa. Sono spesso avvezzo alle lunghe pause di lavoro, parlo di ciò che riguarda la mia ricerca personale “artistica”, e devo dire che ho avuto il privilegio di non sentire la pressione di tale mancanza.
Ovviamente, come tutti del resto, ho subito numerose opportunità lavorative in cui avrei avuto modo di realizzare nuovo materiale, ma nulla non si possa mai più recuperare. Nelle prime settimane ho continuato a scattare nei pressi della mia abitazione, ho la fortuna di avere un piccolo bosco di proprietà, dove al suo interno ho continuato a fare ricerca e a realizzare nuove immagini.
Con l’aggravarsi della pandemia, la mole di lavoro universitaria e quella professionale, che per fortuna non si è fermata totalmente, è stato praticamente impossibile e giusto proseguire in tale direzione. Per quasi tutta la quarantena ho dedicato il mio tempo a lezioni di fotografia in alcuni licei della mia provincia, alla ricerca visiva personale negli archivi online, allo studio, a godermi il sole e il silenzio in giardino, ma sopratutto ho impiegato molto tempo nel definire una direzione futura del mio lavoro in corso.
Questo cambiamento è stato una traslazione, quasi bilanciata, di una pausa di riflessione dall’atto pratico fotografico a favore di un considerevole approfondimento che, fino ad ora, avevo lasciato in disparte. Ho dovuto “fermarmi” e sono contento di averlo fatto.»
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