CHEAP rappresenta uno dei pochi progetti indipendenti a Bologna di attivismo e di coinvolgimento dal basso che vale la pena conoscere e diffondere! CHEAP si esprime attraverso un linguaggio contemporaneo ibrido per parlare di street art, rigenerazione urbana e indagine sul territorio senza nessun tipo di discriminazione. Ho avuto modo di conoscere il gruppo la scorsa (caldissima) estate avendo la possibilità di aiutarl* nell’ attaccare per le vie della città i poster selezionati per l’ultima call.
A proposito, con loro abbiamo parlato della nuova call for artist “RECLAIM”, degli spazi sfitti a Bologna e di collettività, bisognosa di luoghi dove esprimersi socialmente e politicamente.
Cos’è CHEAP?
Una delle definizioni più accurate che hanno dato di noi è che CHEAP è come un virus, la cui natura è quella di mutare e di reinventarsi nel tempo sulla base del contesto che infesta.
CHEAP è un progetto, un collettivo, uno sguardo non obiettivo, un’associazione.
Il materiale che abbiamo scelto di indagare è la carta: lavoriamo sul formato del poster ma facciamo paste-up; immaginiamo che i nostri interventi possano essere intesi come street art, anche se sentiamo una tensione verso l’arte pubblica; indaghiamo prevalentemente il paesaggio urbano, ma con delle significative eccezioni; ci occupiamo di linguaggi contemporanei ma è evidentemente anche un posizionamento politico; curiamo e progettiamo interventi con altr* artist*, sebbene alcuni dei nostri solo project siano di per sé interventi di public art.
Preferiamo pensare che CHEAP abbia la capacità di eccedere le etichette, le categorie stringenti.
2. Da cosa nasce l’idea di un festival di street poster art?
Nel 2012, eravamo interessate a lavorare sul paesaggio urbano e a farlo indagando il paste up, l’attacchinaggio di poster e tutte le modalità di stare in strada utilizzando la carta come strumento: un modo di stare in strada che per noi era la definizione dell’effimero, di una serie di gesti anti monumentali, un’idea del contemporaneo che ha molto a che fare con la temporaneità – la public art non si misura solo in centimetri, ma anche in secondi.
CHEAP è nato come festival ma nel gennaio del 2018 ha annunciato la fine di questa esperienza.
Dal 2013 al 2017, per 5 edizioni, CHEAP ha lavorato con la carta, ha flirtato con l’effimero, ha aggregato favolose singolarità e realtà associative in una ricerca sul e del territorio, ha sollecitato narrazioni contemporanee sul paesaggio urbano, ha contribuito al discorso sullo spazio pubblico.
Nel mentre, ha commesso una quantità sufficiente di errori per poter affermare con una certa tranquillità di avere effettivamente imparato qualcosa.
CHEAP ha fatto tutto questo con il format del festival: a partire dai quartieri, invitando artist* a realizzare interventi site specific, lanciando una call for artist, dandovi appuntamento nelle strade, negli spazi autogestiti, in una rete di luoghi dati all’indipendenza.
Dopo 5 anni di festival, abbiamo potuto dire che il format funzionava. E quindi che questa esperienza era per noi conclusa: abbiamo fatto un bel harakiri – le festival est mort, vive le festival.
Da una parte, sembrava la scelta più naturale vista l’identità di CHEAP, così fortemente legata all’impermanenza: se nulla dura per sempre, figuriamoci se può farlo un festival.
Dall’altra, non possiamo negare che molte variabili del contesto sono mutate nel corso dei 5 anni del festival: sempre più spesso un pezzo non viene considerato gesto vandalico (!) ma street art se (e solo se) fatto con un permesso in tasca e associato ad una qualche mirabolante forma di riqualificazione; vediamo sempre più fiori disegnati sui muri a scapito di gesti che vanno oltre al muro; ancora, siamo testimoni di un numero preoccupante di tentativi atti a normalizzare un’esperienza che ha senso se – e solo se – riconosciuta nei termini della propria eccedenza.
E c’è anche una nostra condivisa forma di inquietudine che ci porta a cercare dell’altro, a tentare nuove soluzioni, a voler stare molto alla larga da gesti che tentano di ripetersi per sempre.
Detto questo, non rinneghiamo nulla. Anzi, ci rivendichiamo tutto – miserie e splendori.
Da questa cesura, CHEAP è ripartita col desiderio di essere più fluida, più situazionista, senza dare appuntamento, prendendosi tutto il tempo che serve, scegliendo di non darsi per scontata, uscendo dalla propria confort zone.
Cercando, soprattutto, di mantenere una distanza di sicurezza tra sé e l’imbruttimento del decoro, la retorica della riqualificazione e le spinte incarnate di questa normalizzazione.
Troppa gente tende l’orecchio al rumore di zoccoli, prefigurandosi l’arrivo di cavalli. Finiremo col non essere in grado di immaginare altro che cavalli. E le zebre? Chi si immagina le zebre? Ecco, votarci all’improbabile ci è sembrato il gesto più sensato da fare – dismesso il festival, ora CHEAP si occupa di zebre.
3. All’inizio del 2020 è stata lanciata l’ottava CALL for ARTIST il tema è “RECLAIM”. Di cosa si tratta?
La CALL for ARTIST è sempre stata per CHEAP un elemento centrale del suo percorso: ogni anno ne lanciamo una, tematica, rivolta non solo a street artist ma anche a chi si occupa di grafica, fotografia, illustrazione ed arte visiva in generale. Scegliamo una suggestione – per il 2020 è appunto RECLAIM – e in risposta riceviamo poster in formato digitale da tutto il mondo. In seguito provvediamo a fare una selezione che verrà stampata e installati a paste up sulle bacheche del circuito CHEAP On Board nel centro di Bologna.
La CALL for ARTIST è l’unico elemento che è sopravvissuto del vecchio festival: non abbiamo voluto decapitarla perché è un meccanismo di apertura sul panorama urbano, sul quale difficilmente si riesce ad arrivare con un progetto che tenta di ricomporre i singoli discorsi in una narrazione collettiva.
RECLAIM parte dalla suggestione di rivendicare qualcosa che ti è stato tolto, precluso, qualcosa che è tuo, sulla base di un diritto o di un desiderio.
Il lancio della CALL for ARTIST è stato accompagnato da due affissioni per le strade di Bologna: la prima di teasing, in cui ponevamo delle domande nemmeno troppo retoriche su temi come corpo, tempo, città e privilegi; nella seconda abbiamo svelato il concept, invitando ad agire una riappropriazione negli ambiti che avevamo evocato nel tease.
L’impatto in strada è stato molto forte, come del resto è successo per la CALL del 2019: sul tema SABOTAGE, l’affissione dei tre poster SABOTATE con grazia, DISOBBEDITE con generosità e DEMISTIFICATE con stile hanno generato una risposta che non prevedavamo, col risultato di dover rendere i poster disponibili al pubblico, distirbuendoli da librerie indipendenti e fino ai bookshop di musei romani.
4. Invece CHEAP cosa reclama ad una città come Bologna?
Il Tema del diritto alla città è esplicitato nel testo della CALL for ARTIST: difficilmente potrebbe essere altrimenti, considerato che la città è l’ambiente in cui operiamo ed il paesaggio urbano è il nostro campo di intervento.
La città in quanto spazio pubblico è messa a tema perché lo spazio pubblico è il tema: il tempo in cui viviamo è stato trionfalemente annunciato come il secolo delle città, noi preferiremmo fosse il secolo delle cittadinanze, il secolo del diritto alla città.
Il diritto di poterne fruire, di poterne decidere e di poterla immaginare diversa per cambiarla.
Bologna oggi vive una crisi che arriva da lontano e che è soltanto amplificata e catalizzata da un fenomeno come Airbnb: non solo la città non riesce a garantire il diritto alla casa ma la stessa città sta diventando inospitale verso quei gruppi, quelle comunità, che ne hanno profondamente segnato l’identità.
Non sappiamo esattamente cosa resti di una città universitaria – della prima città universitaria fondata in Europa – se non ci sono più studenti, visto che non gli viene consentito di abitare una casa.
Allo stesso modo, la vocazione al contemporaneo di Bologna è destinata ad evaporare se chi fa arte e chi si occupa d’arte non ha la possibilità di accedere ad uno studio, uno spazio aperto al pubblico, una factory o un atelier condiviso.
Se la città che è stata avanguardia politica e sociale del paese non riconosce più le comunità che come laboratori sociali sperimentano autogestioni e pratiche che rinnovano quell’onda d’oro che ha definito la nostra cultura urbana, allora non sappiamo più che cosa resta di Bologna.
I tortellini, probabilmente.
5. A tal proposito, durante l’ultima edizione di Art City e Arte Fiera, CHEAP ha occupato per quattro giorni un negozio di proprietà privata sfitto da anni. Qual è stato lo scopo di questa azione? A quali considerazioni siete arrivat*?
Durante Arte Fiera e Art City 2020 abbiamo aperto uno spazio temporaneo nel centro di Bologna uno spazio vuoto trasformato in contenitore del concept che abbiamo scelto per il 2020, RECLAIM.
La suggestione è protagonista del temporary space con un’installazione di bandiere d’artista: un progetto che non si esaurirà in questa prima data ma che proseguirà con i contributi de* artist* che decideranno di indagare il particolare supporto rappresentato dalla bandiera, nel tentativo di cortociruitarlo e di affidargli una narrazione che sovverta il racconto di confini, identità nazionali e visioni post coloniali – bandiere come corpi, come ponti, mai come muri.
Lo stesso spazio fisico del temporary ha replicato un’immaginario di attraversamenti di frontiere, di frontiere come proiezioni, di proiezioni da decostruire: abbiamo realizzato l’allestimento con 100 coperte termiche d’emergenza, impacchettando lo spazio con questo materiale dorato: ad un primo sguardo non era percepibile la coperta singolarmente, solo avvicinandosi e guardando meglio le superfici del temporary ci si rendeva conto di che cosa si trattava, cioè del primo strumento di cui si dota una persona salvata – ad esempio salvata dal mare, magari nel tratto di mare tra il Mediterraneo e la Libia.
Sotto le bandiere di RECLAIM hanno sfilato ospiti, performing set, live act e talk radiofonici: quattro giorni per riempire uno spazio e poi abbandonarlo, quattro giorni e poi il diluvio, in pieno stile CHEAP.
La ricerca dello spazio si è rivelata una ricerca sul territorio: abbiamo scoperto che il centro di Bologna è pieno di spazi vuoti, immobili sfitti, alcuni sfitti da più di 10 anni. Abbiamo contattato circa 70 persone tra agenti immobiliari e proprietà, scoprendo così che circa l’80% di questi immobili sfitti è di proprietà di holding e di banche: quasi tutti, davanti alla prospettiva di un affitto temporaneo non hanno nemmeno voluto incontrarci o lasciato che noi vedessimo lo spazio. Quasi tutti gli annunci sia di vendita che di affito recavano in evidenza la “possibilità di canna fumaria”, cioè la possibilità di poter inserire nello spazio una cucina a norma, ciè la possibilità di poter aprire l’ennesimo ristorante a Bologna.
Al di là dell’arroganza e del provincialismo che buona parte delle proprietà contattate ha palesato, ci sono sembrate dinamiche preoccupanti: ci siamo chieste quanto questi spazi vuoti e fermi influiscano sui prezzi del mercato immobiliare di Bologna e quale tipo di speculazione racconti questo stato delle cose; quale possa essere una politica cittadina per contrastare questa dinamica; in che relazione si ponga questa situazione rispetto alla continua e legittima richiesta di spazi sociali, laboratiali e politici che viviamo in città e che vediamo frustrata quotidianamente fino ad arrivare ad episodi incompresibili come gli sgomberi di realtà già radicate in città, tra cui Atlantide e XM24.
Foto copertina: © Michele Lapini
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